Il semestre europeo è un ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio nell’ambito dell’Ue, durante il quale gli Stati membri allineano le rispettive politiche agli obiettivi convenuti a livello europeo. Già in precedenza esistevano procedure per coordinare le politiche economiche, ma si svolgevano autonomamente l’una dall’altra. Nel 2010, all’apice della crisi, l’UE ha avvertito la necessità di una governance comune più coerente e i calendari sono stati sincronizzati, andando a costituire a partire dal 2011 un unico processo articolato intorno a tre assi:
- riforme strutturali (Piano Nazionale di riforme, PNR) mirate a promuovere crescita e occupazione, in linea con la strategia Europa 2020
- politiche di bilancio (Documento di economia e finanza, DEF) con l’obiettivo di garantire la sostenibilità delle finanze pubbliche, in linea con il Patto di stabilità e crescita
- prevenzione degli squilibri macroeconomici eccessivi
In pratica, nell’arco di ciascun Semestre, la Commissione effettua un’analisi dettagliata della situazione e delle prospettive di ciascuno Stato membro, esamina i documenti che i governi le sottopongono, quindi rivolge a ciascuno delle raccomandazioni specifiche, che questo tradurrà in decisioni programmatiche nei mesi successivi.
L’istituzione del Semestre ha segnato perciò un netto cambio di passo nella capacità dell’Ue di incidere sulle scelte di policy degli Stati membri, comprese quelle che incidono direttamente o indirettamente sul sistema delle PA e dei servizi pubblici. Dal 2012 in poi la “modernizzazione della PA” è stata inclusa tra le priorità del Rapporto annuale sulla crescita, il documento che a novembre di ogni anno segna ufficialmente l’apertura di un nuovo Semestre. Da qui l’importanza di conoscere questi processi e riuscire, come sindacati, a cogliere le opportunità per rappresentare anche al loro interno la prospettiva dei lavoratori e dei servizi pubblici.
Il ruolo delle parti sociali: dalla marginalizzazione al coinvolgimento?
L’introduzione della governance economica europea, d’altra parte, non è certo avvenuta all’insegna di un coprotagonismo riconosciuto alle parti sociali. Il suo primo fondamento è infatti il cosiddetto Patto di stabilità (poi ridenominato “di stabilità e crescita”) la cui funzione è tenere sotto controllo i debiti sovrani attraverso due meccanismi, preventivo e correttivo, che pongono limiti molto stringenti alla capacità di spesa degli Stati membri, in specie quelli come il nostro già gravati da una massa debitoria ingente. Le politiche di austerity adottate da molti Stati membri negli anni successivi al 2010, dietro sollecitazione più o meno pressante della Ue, hanno visto le parti sociali impegnate per quanto possibile a mitigarne le ricadute sui lavoratori e sui cittadini, ma private di un vero ruolo attivo. Dal 2015 la Commissione europea ha cambiato approccio, manifestando l’intento di coinvolgere maggiormente le parti sociali nel policymaking; la proclamazione del Pilastro dei diritti sociali segna – almeno in linea di principio – un avanzamento significativo in questo senso, e in generale nel senso di rendere la governance economica europea più attenta alla dimensione sociale, come il sindacato europeo da tempo rivendicava.
Al di là della retorica, tuttavia, la situazione appare ancora ben lontana dagli auspici. Nel corso di un recente seminario organizzato da Epsu, al quale abbiamo partecipato come Cisl Fp, sono stati presentati e discussi due report realizzati dall’Osservatorio sociale europeo, che rivelano come il ruolo delle parti sociali nel contesto del Semestre sia ancora per lo più quello di chi viene “sentito”, ma non “ascoltato”: di chi fruisce cioè di spazi di confronto istituzionale a livello sia comunitario che nazionale – questi ultimi più o meno ampi e regolari, e spesso scollegati rispetto al dialogo sociale nazionale in cui il ruolo delle parti sociali è più consolidato – ma insufficienti a garantire una reale capacità di influenza sui programmi di riforma.
A livello europeo, la CES e le sue controparti datoriali hanno ottenuto via via l’accesso a vari forum di discussione e confronto con le istituzioni comunitarie in cui trattare i temi del Semestre: gli organismi consultivi della Commissione in materia di occupazione e protezione sociale, le consultazioni preliminari in vista del Rapporto annuale sulla crescita, gli incontri informali che accompagnano la redazione dei report-Paese (su cui si basano le successive Raccomandazioni), il Comitato economico e sociale europeo. A farsi portavoce delle istanze sindacali è soprattutto il livello confederale, ovvero la CES, che raccoglie input da un lato dalle federazioni europee di settore, dall’altro dalle confederazioni nazionali sue affiliate. Queste sono, nella grande maggioranza dei casi, il soggetto più coinvolto nel Semestre nei rispettivi Paesi, mentre è più raro che siano anche i sindacati di categoria a dialogare direttamente con i policymakers.
“Modernizzare la PA” secondo la Commissione, i governi e la Epsu
Ad Epsu si presenta dunque la sfida di rafforzare la capacità di influenza delle sue affiliate sui contenuti del Semestre che riguardano amministrazioni e servizi pubblici, compresi sanità e welfare. Su questi ultimi, l’analisi dell’Osservatorio sociale europeo mostra come l’impostazione neoliberista dei primi set di raccomandazioni della Commissione abbia via via ceduto il passo ad una maggiore attenzione verso obiettivi come il rafforzamento della protezione sociale e dei servizi per l’impiego, l’eradicazione della povertà, l’accesso all’istruzione; al contempo, però, la possibilità concreta di adeguare a questi obiettivi servizi pubblici già colpiti nel passato recente (e non solo) da pesanti tagli a spese, investimenti e personale resta subordinata al rispetto dei vincoli economico-finanziari.
Nei documenti della Commissione la “modernizzazione della PA” si declina in sei macro-ambiti: riorganizzazione della governance territoriale; efficientamento della governance (spending review, e-government, misurazioni d’impatto, gestione delle risorse umane ecc); semplificazione amministrativa; efficientamento dell’uso dei finanziamenti europei, delle procedure di appalto e della gestione delle aziende pubbliche (che si traduce spesso in privatizzazione e termine dei contratti di fornitura in house); efficienza e indipendenza dell’amministrazione giudiziaria, al fine di creare un contesto di certezza legale per le attività produttive; lotta alla corruzione e a tutte le forme di abuso del denaro pubblico. Gli interventi adottati dai governi hanno riguardato soprattutto i primi due punti, ma ancora nel 2015 ben 8 Paesi hanno implementato riforme che toccano i meccanismi di determinazione dei salari nel pubblico, spesso accompagnate da riforme delle relazioni sindacali.
Nei cinque casi nazionali approfonditi da Epsu, ovvero Italia, Francia, Irlanda, Danimarca e Lettonia, la valutazione data dai sindacati sul loro grado di coinvolgimento e di influenza nell’elaborazione del PNR smentisce le intenzioni dichiarate della Commissione europea (e del governo italiano, che nei documenti rivolti alla Commissione nel 2015 proclamava di voler rendere il PNR un “lavoro di squadra” aperto e collaborativo sia tra livelli amministrativi che con le parti sociali). Ma non va meglio in altri casi dove pure esiste una tradizione consolidata di dialogo sociale o anche di concertazione: quando si tratta del Semestre, il giudizio condiviso è che c’è ancora molta strada da fare affinché dalla consultazione formale si passi ad un dialogo vero, in grado di invertire la rotta del progressivo svuotamento di risorse economiche e umane a danno dei sistemi pubblici.
A livello europeo, Epsu ha cercato fin dal 2012 di contrapporre ad una visione strategica del “ritorno alla crescita” penalizzante per i settori pubblici, visti come componente statica dell’economia in opposizione al positivo dinamismo del privato, alcuni principi cardine sui quali ritarare il concetto di modernizzazione: il riconoscimento della specificità degli obiettivi di un servizio pubblico rispetto a quelli delle attività commerciali; la necessità di definire un Quadro europeo per la qualità dei servizi pubblici, nel quale incardinare qualsiasi progetto di riforma; la disponibilità di risorse sia finanziarie che umane adeguate a sostenere le riforme previste; e naturalmente il coinvolgimento delle parti sociali. Resta però il fatto che è la Commissione europea a mantenere saldamente la ownership del Semestre, la quale più che una voce critica sollecita dalle parti sociali un sostegno all’implementazione dei suoi orientamenti. Solo laddove le parti sociali hanno dimostrato capacità di analisi puntuale e fondata su solide basi di prova, la Commissione si è mostrata disponibile a modificare le proprie valutazioni.
Conoscere il gioco, coordinare l’azione: primi passi di un lungo cammino
La sfida per i sindacati è dunque, da un lato, conoscere i meccanismi del Semestre abbastanza da saper individuare i tempi e le modalità più efficaci per avanzare controproposte; dall’altro, far crescere la consapevolezza e affinare le capacità di elaborazione e di coordinamento al proprio interno e attraverso le proprie reti.
Per quanto la conclusione del confronto in Epsu sia inevitabilmente che tutto è ancora da costruire e conquistare, un segnale positivo consiste nel fatto che, da un paio d’anni a questa parte, la Commissione ha preso l’iniziativa di inaugurare nuovi canali di interlocuzione con gli Stati membri, aperti non solo ai governi ma anche agli stakeholder della società civile. Presso le rappresentanze nazionali della Commissione è stata creata la figura del responsabile per il Semestre, e in fase di stesura dei report-Paese vengono effettuate vere e proprie missioni di studio sul campo: si tratta di opportunità ancora poco conosciute, ma potenzialmente preziose, per ottenere un confronto diretto con la Commissione. Le confederazioni delle parti sociali a loro volta sono state invitate a designare propri ‘funzionari di collegamento’ per il Semestre, il cui compito sarà fare da punti di riferimento a livello nazionale nonché da coordinatori tra il livello nazionale e quello europeo.
I processi della governance economica europea sono in sé complessi; le parti sociali e soprattutto i sindacati partono dalla necessità di recuperare un oggettivo svantaggio, e avranno bisogno di sviluppare nuove conoscenze e competenze a tutti i livelli per riuscire a conquistare e presidiare un ruolo di partecipazione autentica, cioè proattiva e se necessario critica. Il lavoro pubblico fatica, forse più di altri settori, a percepirsi e ad essere percepito come coprotagonista in uno scenario sovranazionale; ma pensando a quanto i vincoli europei nel passato recente abbiano innescato (o giustificato strumentalmente) scelte penalizzanti per i lavoratori pubblici, e comunque quasi sempre subìte a giochi ormai fatti, possiamo cogliere appieno l’esigenza – con realismo e senza entusiasmi facili – di prepararci a un salto di qualità della presenza sindacale su questo terreno.