Il sindacato europeo per la parità: integrare nella contrattazione la dimensione di genere

Il sindacato europeo per la parità: integrare nella contrattazione la dimensione di genere | Cisl Fp | Funzione Pubblica

I dati più recenti raccolti da Eurostat, l’istituto europeo di statistica, mostrano un divario retributivo di genere – la differenza tra quanto riceve una donna per ora lavorata rispetto ad un collega uomo – fermo dall’anno scorso al 16,2%. Si tratta comunque di una fotografia incompleta, sia perché la media nasconde grandi differenze da un Paese all’altro, sia perché per molti Paesi (tra cui l’Italia) manca all’appello la pubblica amministrazione centrale – ministeri, difesa ed enti di previdenza – per un totale di quasi 15 milioni di lavoratrici e lavoratori, non avendo l’Ue fatto obbligo agli Stati membri di fornire dati sui salari in questi settori. 

Epsu ha raccolto tutti i dati disponibili per la PA, insieme a quelli che riguardano assistenza socio sanitaria e istruzione – il cui personale, nella gran parte dell’Ue, è per lo più femminile – in un report pubblicato lo scorso 8 marzo. Un lavoro che la federazione europea ha iniziato nel 2014 e che ora riprende e attualizza in vista del suo prossimo Congresso a giugno 2019, nel quale tra gli altri obiettivi rilancerà l’impegno per la parità di genere nella società e sul lavoro, e formulerà proposte per inserire strutturalmente la dimensione di genere nel dialogo sociale e nella contrattazione collettiva.   

La discriminazione di genere è un fenomeno a più dimensioni di cui la disparità salariale non è che il più eclatante, e a sua volta più complesso di quanto sembra. Se è vero che la gran parte dei paesi Ue ha varato leggi che vietano di remunerare in modo diverso uomini e donne a parità di prestazione lavorativa, e che la pubblica amministrazione è generalmente considerata da questo punto di vista come un datore di lavoro esemplare, i dati statistici ricordati prima dicono due cose fondamentali: la prima, che le cause del gap salariale sono spesso indirette e difficili da individuare e contrastare, perché radicate nella cultura aziendale, nell’organizzazione del lavoro e nella percezione diffusa dei ruoli sociali maschili e femminili; la seconda, in particolare per quanto riguarda i settori pubblici, che l’austerity ha colpito il lavoro pubblico in maniera differenziata e che l’impatto delle scelte di policy sollecitate dall’Ue e adottate dai governi di fronte alla crisi dei debiti pubblici non è stato adeguatamente valutato, né a valle né ancor meno a monte. Ad esempio, uno studio recente condotto da ricercatori sindacali ha evidenziato la correlazione tra l’esternalizzazione di servizi pubblici e l’aumento di forme di occupazione scarsamente qualificata (e scarsamente sindacalizzata) nelle quali le donne sono sovrarappresentate rispetto all’insieme dell’economia. 

Una federazione europea come Epsu non ha la titolarità della contrattazione salariale, ma su questo terreno sostiene il lavoro delle affiliate in molti modi: realizza report e linee guida, utili per elaborare le piattaforme nazionali ma anche per fornire argomenti a campagne di informazione e sensibilizzazione; facilita gli scambi di esperienze e il mutuo apprendimento;  promuove approfondimenti sulle tematiche di genere ai tavoli di dialogo sociale settoriale (quello delle amministrazioni locali, ad esempio, ha adottato l’anno scorso una guida all’elaborazione di piani aziendali per la parità); partecipa alle consultazioni della Commissione europea e svolge un ruolo di advocacy verso le istituzioni Ue, autonomamente o congiuntamente con le rappresentanze datoriali o ancora nel quadro delle strategie della CES.

Con la confederazione europea, Epsu sta facendo pressione affinché sia adottata la proposta di direttiva sulla conciliazione vita-lavoro, avanzata dalla Commissione dopo un tentativo fallito dei governi degli Stati membri di concordare l’estensione del congedo di maternità. Tra le novità, essa prevede l’introduzione di congedi di paternità e di cura rispettivamente di 10 e 5 giorni, un congedo parentale di 4 mesi retribuito e non trasferibile (che può cioè essere fruito solo dal titolare, per incoraggiare una ripartizione più equa dei compiti di cura) e il diritto sia per le lavoratrici che per i lavoratori con compiti di cura di richiedere orari flessibili. Elementi che alcuni Paesi e/o alcuni contratti collettivi già in parte riconoscono ma che, se inclusi in una direttiva europea, definirebbero il nuovo standard a cui tutti gli Stati membri sarebbero tenuti ad armonizzarsi. 

Il mondo sindacale europeo avverte da tempo l’esigenza di superare l’approccio che concentra le misure di conciliazione sulle donne, e che se da un lato facilita l’occupabilità delle donne con carichi familiari, dall’altro ha paradossalmente contribuito a consolidare l’ineguale distribuzione del part-time, delle opportunità di sviluppo professionale e di alcuni benefit stipendiali, tutte cause indirette del divario retributivo. In questo senso l’impegno sulla nuova Direttiva conciliazione è un buon esempio dell’approccio ‘olistico’ al tema della parità che il sindacato europeo sta costruendo, che tiene insieme l’aspetto occupazionale, retributivo e organizzativo con quello socio-culturale che punta al superamento degli stereotipi di genere. Sullo stesso obiettivo convergono varie altre istanze che Epsu ha posto in sede di confronto: la trasparenza retributiva, vale a dire l’obbligo per ogni organizzazione pubblica o privata di rendere accessibili i dettagli della struttura salariale, in modo da consentire alle rappresentanze dei lavoratori il monitoraggio del rispetto delle norme sulla parità e un’analisi più approfondita delle cause di disparità; l’implementazione delle linee guida contro tutte le forme di aggressione e molestie nei luoghi di lavoro elaborate dalle parti sociali (già adottate da quelle della sanità e delle amministrazioni locali, quelle centrali potrebbero farlo entro quest’anno); il rilancio degli investimenti pubblici nei settori a forte partecipazione femminile – sanità, servizi sociali, per l’infanzia e non autosufficienza – e nella riforma dei percorsi formativi per le professioni di cura.

Il percorso inaugurato quest’anno dalla federazione europea va in una direzione ancora più ambiziosa: definire strategie e contenuti per una “contrattazione di genere”, che faccia della parità non un obiettivo accanto agli altri in una piattaforma contrattuale, ma un lucido sul quale valutare ed eventualmente rimodulare gli altri elementi: le classificazioni professionali e i percorsi di carriera, i sistemi di valutazione, le voci salariali accessorie, gli orari di lavoro… Si tratta, in altre parole, di applicare sistematicamente all’attività e alla visione strategica dei soggetti sindacali quel gender mainstreaming che la Ue ha codificato tra i suoi impegni ma che finora è stato poco più di un esercizio tecnico, non sufficientemente integrato nella Strategia europea per l’occupazione e nelle altre agende chiave della politica comunitaria. Il Pilastro europeo dei diritti sociali varato a fine 2017, che approfondiremo prossimamente, in linea di principio offre spazi significativi per l’avanzamento verso la parità; ma il lavoro delle parti sociali, e l’effettiva disponibilità dei decisori europei a raccoglierne gli input, possono fare molta differenza nella qualità e nell’efficacia delle misure che dovranno tradurre quei principi in realtà.

Report Epsu sul divario retributivo di genere

https://cislfp.it/wp-content/uploads/2018/12/genderpaygapinpublicservices-final-2018.pdf