Il dialogo sociale è un elemento fondamentale del modello sociale europeo. L’Organizzazione internazionale del lavoro lo definisce come “ogni tipo di negoziazione, consultazione o semplice scambio di informazioni fra rappresentanti di governi, imprenditori e lavoratori, su tematiche di interesse comune riguardanti la politica economica e sociale”. È il processo attraverso il quale le parti sociali possono contribuire attivamente all’elaborazione delle policies comunitarie.
Il dialogo sociale ha trovato progressivamente spazio nei Trattati che codificano il funzionamento dell’Unione Europea. Dal trattato di Roma del 1956, in cui veniva assegnato alla Commissione il compito di favorire la collaborazione tra gli Stati membri per quanto riguarda il diritto di associazione e la contrattazione collettiva; al 1985, anno in cui è stato avviato il coinvolgimento della Confederazione europea dei sindacati (CES) e delle sue controparti datoriali del privato e del pubblico nell’attuazione del mercato interno; fino al vigente Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (di seguito TFUE) che gli dedica alcuni specifici articoli.
L’art.151 inserisce il dialogo sociale tra le priorità dell’Unione in materia di politica sociale, al pari della promozione dell’occupazione, del miglioramento del tenore di vita, dell’aumento dell’occupazione e dello sviluppo delle risorse umane.
L’art.152 recita “L’Unione riconosce e promuove il ruolo delle parti sociali al suo livello, tenendo conto della diversità dei sistemi nazionali. Essa facilita il dialogo tra tali parti, nel rispetto della loro autonomia”.
L’art.153 elenca le materie di competenza concorrente con gli Stati membri sulle quali, e su queste soltanto, è ammesso un intervento dell’Unione, mentre altre sono escluse dall’ambito di competenza dei decisori comunitari tra cui il diritto allo sciopero, il diritto di associazione e le retribuzioni.
L’art.155 stabilisce che la Commissione è tenuta a consultare le parti sociali prima di adottare qualsiasi iniziativa in materia di politica sociale. Queste a loro volta possono manifestare alla Commissione l’intenzione di affrontare la materia per via negoziale. La Commissione allora si ferma per 9 mesi, durante i quali può accadere che le parti
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concludano un accordo e quindi chiedano congiuntamente alla Commissione di proporre che il Consiglio adotti una decisione di attuazione: l’accordo viene così trasposto in Direttiva, diventando vincolante per tutti gli Stati membri;
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concludano un accordo e provvedano ad attuarlo secondo le proprie procedure e prassi specifiche e quelle degli Stati membri, lo attuano cioè per via negoziale e non legislativa;
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non raggiungano alcun accordo, e in questo caso la palla torna alla Commissione che riprende i lavori sulla materia in questione.
Dal dialogo sociale europeo sono scaturiti molti importanti accordi che sono stati integrati in vario modo nell’acquis comunitario. Alcuni esempi sono gli accordi intersettoriali sul congedo parentale (1995), sul lavoro a tempo parziale (1997) e sul lavoro a tempo determinato (1999), trasposti poi in Direttive del Consiglio; mentre sono stati implementati in autonomia dalle parti sociali quelli sul telelavoro del 2002, sullo stress lavoro correlato del 2004, su prevenzione e contrasto delle molestie sul luogo di lavoro del 2007, e l’ultimo in ordine di tempo, del 2017, sull’invecchiamento attivo e la solidarietà intergenerazionale.
Nel 1998 la Commissione europea ha dato il via alla costituzione, accanto al dialogo sociale intersettoriale, di organismi di dialogo sociale specifici per i diversi settori. Questi, istituiti formalmente nel corso degli anni successivi, hanno prodotto a loro volta un corpus significativo di accordi europei. È a questi tavoli che partecipano in rappresentanza dei lavoratori le federazioni europee come la Epsu.
La crisi economica e l’approccio politico-strategico adottato dall’Ue per gestirla hanno segnato una battuta di arresto in questo processo così come a livello nazionale, in molti Stati membri, alla contrattazione collettiva. La situazione ha iniziato a riprendersi a partire dal 2014, quando la nuova Commissione si è impegnata a rilanciare il dialogo con le parti sociali e, successivamente, a coinvolgerle nel ciclo annuale della governance economica europea, il cosiddetto ‘Semestre’, e in generale nel processo di elaborazione politica e legislativa dell’UE.
Da ultimo, a novembre 2017, è stato ratificato da parte di Parlamento europeo, Consiglio e Commissione il “Pilastro europeo dei diritti sociali”: un documento di grandissima importanza per riorientare il policy making europeo, in cui per un decennio hanno prevalso le considerazioni economico-finanziarie, verso una maggiore attenzione alle istanze di equità e coesione sociale, alla promozione anche qualitativa del lavoro, agli istituti partecipativi.
Esso tocca una serie di ambiti nei quali le competenze sono condivise o concorrenti tra UE e Stati membri. Dispone, tra le altre cose, il rispetto dell’autonomia delle parti sociali nella definizione dei salari; riconosce il loro diritto ad essere coinvolte nella concezione e nell’attuazione delle politiche occupazionali e sociali, incoraggiandole a negoziare e a concludere accordi collettivi negli ambiti di loro competenza, nel rispetto della propria autonomia e del diritto all’azione collettiva; sostiene un loro maggiore coinvolgimento nelle politiche e nell’azione legislativa, tenendo conto delle diversità dei sistemi nazionali.