Nell’ultima riunione del comitato esecutivo Epsu è stato approvato un documento che prende posizione su un tema che è molto presente a livello nazionale così come europeo, ma spesso “ostaggio” di letture semplicistiche e ‘nuoviste’, quando invece contiene molti aspetti delicati da gestire con la dovuta consapevolezza e condivisione di obiettivi: la digitalizzazione dei servizi pubblici, che rimanda a quello più ampio dell’impatto delle nuove tecnologie sull’ecosistema economico-sociale del quale i servizi pubblici sono parte, e rispetto al quale sono chiamati a ridefinire il proprio ruolo e le modalità con le quali assolverlo.
Il position paper Epsu (di cui non è disponibile una versione in italiano, ma quelle realizzate in altre lingue europee sono scaricabili a questo link è frutto soprattutto del lavoro svolto al tavolo di dialogo sociale europeo per le amministrazioni locali, lavoro che è stato successivamente condiviso con i comitati permanenti degli altri settori e integrato con i loro feedback, e che orienterà le attività future di Epsu su questo tema a partire dalla partecipazione al confronto in corso a livello europeo. Esso tocca vari aspetti legati agli effetti della digitalizzazione sui diritti dei lavoratori, la qualità dell’occupazione e l’erogazione dei servizi pubblici:
- rischi e potenzialità della digitalizzazione: opportunità e sfide legate a investimenti, organici, pari opportunità, difesa dei servizi pubblici
- impatto sui lavoratori: gestione dei cambiamenti organizzativi, valutazione, benessere lavorativo, orari di lavoro, ruolo del dialogo sociale, telelavoro e “diritto alla disconnessione”
- partecipazione, consultazione e formazione: quale ruolo per i lavoratori nel progettare e implementare nuovi sistemi digitali, importanza di una formazione continua e di qualità
- infrastruttura aperta e servizi accessibili: come una digitalizzazione ben fatta può rafforzare i servizi pubblici e contribuire a superare il digital divide e a diffondere le competenze digitali essenziali ai cittadini
- sfide legate alla protezione dei dati personali di lavoratori e cittadini, necessità di trasparenza sull’utilizzo dei dati e di rafforzamento dei diritti connessi
Il concetto di digitalizzazione viene definito non solo come adozione di tecnologie ICT ma anche come processo di trasformazione economica e sociale innescato dalla diffusione di tali tecnologie su larga scala, processo che ha iniziato da qualche tempo ad impattare in maniera significativa il mondo dei servizi pubblici. Le potenzialità positive sono notevoli: possibilità di accrescere la partecipazione di lavoratori e cittadini, maggiore qualità e accountability, maggior benessere lavorativo. Tuttavia è un fatto che spesso la parola d’ordine “digitalizzazione” viene usata per coprire tutt’altro: esternalizzazioni, cessione a privati delle attività economicamente più appetibili, commercializzazione del servizio pubblico ed erosione progressiva del suo specifico valoriale.
La trasformazione digitale interessa, con diversi tempi e modi, tutti i settori rappresentati nella Epsu. Allo stato tuttavia, poco si sa di quali effetti concreti esso abbia sulle condizioni di lavoro e sull’erogazione dei servizi. A livello europeo tutta l’attenzione, in questo come nell’approccio complessivo alla governance economica, è concentrata su aumento di efficienza e produttività e riduzione dei costi. Questo porta ad introdurre nuovi sistemi senza preoccuparsi degli investimenti, del personale, della formazione e delle competenze necessari per farli funzionare. Al contrario, si tende a usare la digitalizzazione come scusa per “risparmiare” ulteriormente sul capitale umano. Pure non ci sono prove che, specialmente sul medio-lungo periodo, la digitalizzazione di per sé basti a generare risparmi e semplificazione amministrativa; al contrario, può rendere il sistema più rigido e meno resiliente. In più può esasperare le disuguaglianze di genere, per via della diversa percezione che molti datori e dirigenti hanno delle capacità delle donne (specialmente se anziane) in materia di ICT (qui si pone anche il tema dell’istruzione scientifico-tecnica della popolazione femminile, per evitare che le future lavoratrici abbiano meno chance di entrare nel mondo del lavoro).
L’impatto sui processi lavorativi è molteplice: cambiano (o dovrebbero cambiare) i modelli organizzativi, il contenuto delle mansioni, le competenze richieste, il modo di relazionarsi con l’utenza. Servirebbe più dibattito su come cambiano i processi lavorativi in seguito all’introduzione di strumenti digitali, sui fabbisogni informativi e formativi nelle diverse fasi dell’implementazione e per diversi gruppi di personale, sugli eventuali contraccolpi emotivi (il senso di “spersonalizzazione” di molti operatori abituati alla relazione diretta con il cittadino), sulle buone pratiche replicabili. Il lavoro digitale crea nuovi rischi, in particolare psicosociali (la sindrome del “sempre connessi”); cambia i parametri con cui viene valutata la produttività del lavoratore (un approccio superficiale alla digitalizzazione potrebbe portare a premiare il raggiungimento di obiettivi ‘meccanici’ di cortissimo respiro); può incentivare strumenti come il telelavoro e il lavoro agile ma anche il loro abuso (aspettativa di disponibilità h24) nonché forme di occupazione di dubbia qualità come il cosiddetto crowd work, in cui la piattaforma digitale consente di esternalizzare mansioni a un gran numero di ‘collaboratori’ anonimi, precari, scarsamente qualificati e scarsamente retribuiti. La proliferazione di queste piattaforme e della cosiddetta gig economy (economia basata sul lavoro a chiamata , in cui la piattaforma digitale media tra domanda e offerta ugualmente ‘puntuali’ e contingenti) può rappresentare per le amministrazioni anche un incentivo ad abbandonare le attività in-house a favore del più “economico” crowd work, creando un nuovo fronte di dumping salariale e contrattuale.
La generazione di un flusso sempre più imponente di dati digitali tracciabili pone con forza il problema della sicurezza, del controllo e della privacy, da più punti di vista: dalla possibilità per il datore che “possiede” in via esclusiva i dati sul lavoro dei propri dipendenti di usarli come strumento di pressione (ad es. contestare a un lavoratore impiegato fuori sede quale sia l’effettivo “tempo lavorato” da retribuire) ai maggiori rischi per un dipendente, specialmente se non viene adeguatamente formato all’uso delle nuove tecnologie, di commettere violazioni di cui sarebbe chiamato a rispondere; ma altresì alla possibilità per un dipendente di accedere ad informazioni compromettenti sulle attività della propria organizzazione, che richiede di estendere la protezione legale dei whistleblower a tutto il settore pubblico, compresi i funzionari di carriera. Ogni lavoratore dovrebbe essere informato in maniera chiara e completa dei suoi diritti e doveri in relazione all’uso degli strumenti digitali. Il settore pubblico dovrebbe porsi come avanguardia virtuosa su tutti questi aspetti, sia per le tutele che per la qualità degli strumenti digitali adottati.
Il tema del trattamento dei dati si pone naturalmente sia per i lavoratori che per i cittadini utenti. Investimenti adeguati tanto nelle infrastrutture quanto nelle competenze sono nell’interesse di tutte le parti. Anche sotto questo aspetto bisogna porre grandissima attenzione ai contenuti degli accordi transatlantici CETA, Ttip e TiSA: gli interessi dei grandi soggetti privati quanto alle possibilità di sfruttamento commerciale dei dati puntano ovviamente ad assicurarsi la massima libertà di manovra, mentre è opportuno che resti saldamente in capo alle autorità pubbliche la facoltà sia di gestire direttamente i dati pubblici, sia di legiferare per aumentare i livelli di protezione a beneficio dei cittadini. In ogni caso, un servizio digitale deve garantire a chi vi accede massima chiarezza e trasparenza sull’utilizzo che verrà fatto dei suoi dati.
In generale, tutti gli aspetti che pertengono alla tutela delle condizioni di lavoro, all’individuazione delle possibili criticità del passaggio al digitale e alla sua implementazione dovrebbero essere oggetto di accordi a tutti i livelli: europeo, nazionale e locale. I processi di digitalizzazione dovrebbero essere condotti in modo partecipato, coinvolgendo i lavoratori e i loro rappresentanti fin dalle fasi iniziali e lungo tutto il percorso, e assicurando supporto tecnico e formativo. La formazione al digitale non dovrebbe costituire un una tantum bensì un processo di continuo aggiornamento, pena il rischio di fallimento (emblematico il caso dell’Estonia, che è stata pioniera nella sanità digitale nel 2008). Informazione e consultazione dovrebbero essere viste come supporto fondamentale nella gestione del processo, prevedendo anche un ruolo attivo dei dipendenti nella coprogettazione dei nuovi servizi. La digitalizzazione in questo senso può diventare un processo inclusivo, attraverso il quale creare un ambiente nel quale l’innovazione può venire dai lavoratori. Si deve mettere in discussione l’idea che questi processi possano avere luogo solo nel privato per essere poi ‘importati’ nel pubblico.
Il carattere inclusivo della digitalizzazione deve ovviamente intendersi anche come attenzione a mantenere la massima accessibilità dei servizi. Il rischio poco approfondito dell’approccio digital by default è che utenti socialmente fragili, con scarse competenze e/o accesso difficoltoso alla rete si trovino privati dell’unica interfaccia con cui possono rapportarsi alla p.a. Alfabetizzazione digitale e accesso alla rete devono diventare diritti fondamentali per tutti i cittadini, e allo stesso tempo l’opzione ‘analogica’ non può essere eliminata. In questo senso è da esplorare il concetto di “beni comuni digitali” come integrazione all’etica del servizio pubblico: l’infrastruttura virtuale come bene pubblico al pari di un ambulatorio o una biblioteca. Gli stessi luoghi pubblici potrebbero diventare punti di accesso gratuito alla rete, con personale formato per assistere i cittadini che ne avessero bisogno nell’adempimento di una procedura o nell’ottenimento di un servizio. L’utilizzo di software e di licenze open source, infine, può essere un’opzione specifica da parte delle organizzazioni pubbliche per assicurare l’interoperabilità tra amministrazioni, evitare la formazione di monopoli privati, e creare partenariati pubblico-pubblico per la messa in comune di conoscenze e competenze.
Ecco dunque in sintesi i criteri base di una digitalizzazione equa ed inclusiva secondo il sindacato europeo:
- Investimenti adeguati nel processo, cioèè maggiori di quelli visti fin qui, e quindi anzitutto una decisa inversione di rotta rispetto ai tagli orizzontali applicati ai settori pubblici, sia in termini di risorse umane che di infrastrutture
- No ad una digitalizzazione usata come mera ‘copertura’ per la privatizzazione/esternalizzazione di servizi pubblici: al contrario, essa può essere abbinata efficacemente ad un ritorno in mano pubblica di servizi già esternalizzati con risultati dubbi e ad un incentivo ai partenariati tra diversi soggetti pubblici
- Attenzione alla prospettiva di genere: la digitalizzazione non deve rafforzare gli stereotipi riguardo alle presunte scarse attitudini delle lavoratrici per le competenze e le professionalità tecniche. La formazione deve essere tarata sulle esigenze dei diversi gruppi di lavoratori e l’intero processo deve valorizzare, accanto alle competenze prettamente tecniche, anche i ‘soft skills’ sociali e relazionali.
- L’impatto della digitalizzazione sull’organizzazione del lavoro, il diritto dei lavoratori all’informazione e quello alla formazione sono materie da trattare nell’ambito della contrattazione collettiva e del dialogo sociale europeo
- La digitalizzazione non deve essere una scusa per pretendere dai lavoratori la disponibilità h24: il diritto alla disconnessione deve essere tutelato. In questa ottica, anche qualsiasi futura revisione della Direttiva orari deve puntare a migliorare la tutela del lavoratore e la conciliazione vita-lavoro nel contesto della connettività permanente abilitata dalle tecnologie mobili
- L’evoluzione del telelavoro non deve portare alla parcellizzazione dei processi lavorativi e tanto meno alla sua ‘delocalizzazione’ verso piattaforme digitali di crowdwork (cfr. nei servizi privati il contestatissimo modello di Amazon Mechanical Turk).
- Dal punto di vista di salute, sicurezza e benessere gli ambienti di lavoro vanno adeguati ai nuovi processi lavorativi ridisegnati dalla digitalizzazione, tenendo conto dei rischi emergenti e in particolare di quelli psicosociali che varie ricerche rilevano in aumento.
- I whistleblowers, ovvero i dipendenti che denunciano situazioni di illegalità e corruzione nelle loro organizzazioni, devono essere protetti.
- Le strutture del dialogo sociale a tutti i livelli dovranno affrontare il tema della digitalizzazione inclusiva, sia per i lavoratori pubblici che per i cittadini utenti, elaborando standard condivisi riguardo a formazione, partecipazione, salute e sicurezza.
- I datori di lavoro dovranno consultare e coinvolgere le rappresentanze dei lavoratori sull’introduzione e l’utilizzo di nuove tecnologie nei luoghi di lavoro.
- La formazione deve essere dinamica, tenere conto dei diversi livelli di alfabetizzazione digitale dei lavoratori e puntare a portarli tutti ad un medesimo alto livello di consapevolezza e padronanza dei nuovi strumenti; livello che non dovrà essere inferiore a quello dei settori privati, per mantenere i servizi pubblici sostenibili e competitivi.
- Per evitare di aggravare il divario digitale tra i cittadini, l’erogazione dei servizi in modalità digitale deve essere un’opzione, non l’unica forma possibile. Nel frattempo, l’agenda europea per la digitalizzazione deve includere risorse sufficienti a garantire la connettività per tutti, negli spazi pubblici come in quelli privati. I progetti per lo sviluppo di standard operativi open source per la PA, messi da parte con l’arrivo della crisi, devono essere rilanciati.
- EPSU si oppone ad accordi commerciali che possano compromettere o limitare il diritto dei cittadini alla privacy e alla tutela dei dati personali. I dati pubblici devono essere utilizzati per scopi di pubblico interesse, e sempre in modo da garantire il massimo livello possibile di protezione
- Le sanzioni per l’abuso di internet sul lavoro devono essere chiare e proporzionate. Se il datore monitora l’attività dei dipendenti sulla rete, questi devono essere adeguatamente informati. Epsu sostiene la definizione di standard comuni europei su questo aspetto applicabili a tutti i lavoratori